Vi si diresse: era proprio una taverna, la taverna di via Chaffaut.
Il viaggiatore si fermò un momento e guardò attraverso la vetrata nell'interno della sala a terreno della taverna, rischiarata da una piccola lucerna sopra un tavolo e da un gran fuoco. Alcuni uomini stavano bevendo, mentre l'oste si scaldava; la fiamma faceva gorgogliare una pentola di ferro, appesa alla catena.
Quella taverna, specie d'albergo, aveva due ingressi; uno sulla via e l'altro sopra un cortiletto, pieno di strame. Il viaggiatore non osò entrare dalla porta di strada, ma s'introdusse nel cortile, si fermò di nuovo, poi girò timidamente il saliscendi e spinse la porta.
«Chi va là?» chiese il padrone.
«Uno che vorrebbe mangiare e dormire.»
«Bene, qui si mangia e si dorme.»
Entrò. Tutti i bevitori si voltarono, la lucerna lo rischiarava da una parte e il fuoco dall'altra, così che poterono bene esaminarlo mentre si liberava del sacco. L'oste gli disse:
«Qui c'è il fuoco e la zuppa sta cuocendo nella pentola; venite a scaldarvi, camerata.»
Egli andò a sedersi vicino al camino e stese verso il fuoco i piedi martoriati dalla stanchezza. Un buon odore usciva dalla pentola; e tutto quel che si poteva distinguere del suo viso, sotto il berretto calcato, assunse una vaga apparenza di benessere, misto a quell'aspetto così doloroso che dà l'abitudine alla sofferenza. Era del resto un profilo deciso, energico e triste, con una fisionomia stranamente composta. Sul principio sembrava umile e finiva per sembrare severa; sotto le sopracciglia gli occhi scintillavano, come un fuoco sotto i cespugli.
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Chaffaut
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