Sentiva quei misteriosi mormorii che avvertono o importunano la mente in certi momenti della vita? Gli diceva una voce all'orecchio che stava per attraversare l'ora solenne del suo destino, che per lui non v'era via di mezzo, e se d'allora in poi non fosse stato il migliore degli uomini, sarebbe stato il peggiore? Che bisognava, per così dire, ch'egli salisse ora più in alto del vescovo o ricadesse più in basso del galeotto, e se voleva diventare buono, bisognava fosse un angelo come, se voleva restar malvagio, doveva diventar un mostro?
Ancora una volta dobbiamo rivolgerci queste domande: dava ricetto nella sua mente a un barlume solo di siffatte idee? Certo, abbiam detto, il male compie l'educazione dell'intelligenza; ma è almeno dubbio che Jean Valjean fosse in grado di sbrogliare quella confusione; se quelle idee gli venivano, le intravedeva più che non le vedesse, riuscivan solo a gettarlo in un turbamento insopportabile e quasi doloroso. All'uscita da quella cosa deforme e nera che si chiama il carcere, il vescovo gli aveva fatto male all'anima, come una luce troppo viva agli occhi, all'uscir dalle tenebre. La vita futura, la vita possibile che gli si offriva con tutta la sua purità e il suo fulgore lo riempiva di fremiti e d'ansia. Non sapeva a che punto fosse; come una civetta che vede bruscamente alzarsi il sole, il forzato era abbagliato e quasi accecato dalla virtù.
Era certo, non metteva in dubbio che non era più lo stesso uomo, che tutto era cambiato in lui e non era in suo potere d'impedire che il vescovo gli avesse parlato e l'avesse toccato.
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Jean Valjean
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