Il legno spariva sotto il fango e il ferro sotto la ruggine. Dall'asse pendeva, a mo' di panneggio, una grossa catena, degna di Golìa forzato, che faceva pensare, non già alle travi da trasportare, ma ai mastodonti, ed ai mammuth che avrebbe potuto aggiogare. Si sarebbe detto che appartenesse a un ergastolano, ma ciclopico e sovrumano, e sembrava fosse stata distaccata da qualche mostro; Omero v'avrebbe legato Polifemo e Shakespeare Calibano.
Ma perché mai l'avantreno di quel carro da legnami era a quel posto sulla strada? Prima di tutto, per ingombrare la strada e poi per terminare d'arrugginirsi. Nel vecchio ordine sociale v'è una quantità d'istituzioni che si trovano allo stesso modo in bella mostra sul passaggio senza alcuna ragione per esservi.
Il centro della catena pendeva sotto l'asse, piuttosto vicino a terra, e quella sera, sulla sua parte più bassa, stavano sedute e avvinte in delizioso abbraccio, come sulla corda d'un'altalena, due bimbette, una di circa due anni e mezzo e l'altra di diciotto mesi, la più piccina fra le braccia della più grande: un fazzoletto sapientemente annodato impediva loro di cadere. Una madre aveva visto quella spaventosa catena ed aveva detto: «To'! Ecco un giocattolo per le mie bambine.»
Le due bimbe, del resto in vesti graziose ed eleganti, raggiavano di gioia; si sarebbero dette due rose in mezzo al ferrovecchio. I loro occhi esprimevano il trionfo e le fresche gote ridevano. Una era castana e l'altra era bruna; i loro ingenui visetti mostravano uno stupore estatico mentre un cespuglio fiorito poco lontano da esse mandava ai viandanti un profumo che sembrava venisse da loro; la piccolina di diciotto mesi mostrava il suo grazioso ventre nudo, colla casta indecenza dell'infanzia.
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