Sopra ed intorno a quelle due teste delicate, fatte di felicità e inondate di luce, si stagliava il gigantesco avantreno nero di ruggine, terribile, tutto solcato da curve e da angoli selvaggi, simili all'ingresso d'una caverna. A pochi passi rannicchiata sulla soglia dell'albergo, la madre, dall'aspetto poco avvenente, del resto, ma in quel momento era commovente, faceva dondolare le due bimbe per mezzo d'una lunga cordicella, covandole collo sguardo, per il timore di qualche incidente, con quell'espressione animalesca e celeste propria della maternità. Ad ogni oscillazione gli orribili anelli gettavano un suono stridente, come un grido di collera; le bimbette ne godevano e il sole morente pareva unirsi alla loro gioia e nulla era più grazioso di quel capriccio del caso, che aveva fatto di una catena da titani un'altalena da cherubini.
Mentre cullava le due piccole, la madre canticchiava in falsetto una romanza allora celebre:
Debbo farlo, diceva un guerriero...
E la canzone e la guardia alle figlie le toglievano di sentire e di vedere quello che accadeva nella strada. Pure, qualcuno s'era avvicinato a lei, mentre stava incominciando la prima strofa della romanza; all'improvviso ella sentì una voce che le diceva, vicinissimo all'orecchio:
«Avete due bimbe graziose, signora.»
«... Alla tenera e bella Imogina,»
rispose la madre, continuando la romanza; poi volse il capo. Le stava dinanzi, a pochi passi da lei, una donna; anche quella aveva una bimba, fra le braccia. Portava inoltre un sacco da lavoro piuttosto grosso che sembrava pesantissimo.
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Imogina
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