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      Aveva mani scure e tutte chiazzate di macchie rosse, l'indice indurito e punto dall'ago, un soprabito senza maniche, scuro, di lana greggia, un vestito di tela e grosse scarpe. Era Fantine.
      Era Fantine, ma irriconoscibile: tuttavia, se la si guardava attentamente, aveva sempre la sua bellezza, malgrado la triste piega che, come un ghigno incipiente, le solcava la gota destra. Il suo abbigliamento di mussola e nastri che sembrava fatto di gioia, di follìa e di musica, sparso di convolvoli e profumato di lillà, era svanito come quelle gocce di rugiada scintillanti, che si scambierebbero per diamanti, al sole, e che fondono, lasciando il ramo nero nero.
      Dieci mesi erano trascorsi dal «bello scherzo». Che cos'era successo durante quei dieci mesi? Lo si indovina.
      Dopo l'abbandono, era sopravvenuta l'indigenza. Fantine aveva subito perduto di vista Favourite, Zéphine e Dahlia; il legame, spezzato dal lato degli uomini, s'era disciolto da quello delle donne, tanto che si sarebbero stupite se, quindici giorni dopo, si fosse detto loro ch'erano amiche: poiché la cosa non aveva più ragion d'essere. Partito il padre della sua bimba (queste rotture, ahimè! sono irrevocabili), ella si trovò assolutamente isolata, coll'abitudine del lavoro in meno e col desiderio del piacere in più; indotta dalla sua relazione con Tholomyès a sdegnare il povero mestiere che conosceva, aveva trascurato le sue clienti e le aveva perdute. Nessun mezzo d'uscita. Fantine sapeva a stento leggere, ma non sapeva scrivere; soltanto, nell'infanzia, le avevano insegnato a scrivere il suo nome: aveva dunque fatto scrivere da uno scrivano pubblico una lettera a Tholomyès, poi una seconda ed una terza.


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I miserabili
di Victor Hugo
pagine 1886

   





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