Egli aveva la scelta fra quelle due sole classi, e nello stesso tempo sentiva in sé un certo qual fondo di rigidità, di osservanza della legge e di probità, complicato da un odio inesprimibile per quella razza di zingari dalla quale era uscito; ed entrò nella polizia.
Vi fece carriera: a quarant'anni era ispettore. Nella sua gioventù era stato addetto alla sorveglianza dei forzati del Mezzogiorno.
Prima di proseguire intendiamoci bene sulla frase faccia umana, or ora attribuita a Javert. La faccia umana di Javert consisteva in un naso camuso con due profonde narici, verso le quali salivano dalle guance le enormi fedine: chiunque si sentiva a disagio, la prima volta che scorgeva quelle foreste e quelle due caverne. Quando Javert rideva, cosa rara e terribile, le sue labbra esili si aprivano e lasciavano scorgere, non soltanto i denti, ma le gengive, mentre intorno al naso gli si disegnava una serie di increspature lievi e bestiali, come sopra il muso d'una bestia feroce. Javert, serio, era un cane; quando rideva, era una tigre. Del resto, poco cranio e molta mascella, i capelli che nascondevano la fronte e gli ricadevan sulle sopracciglia, un cipiglio permanente, piantato fra gli occhi come una stella di collera, lo sguardo cupo, la bocca serrata e paurosa, l'aria di feroce comando.
Quell'uomo era composto di due sentimenti semplicissimi e relativamente assai buoni, ma ch'egli rendeva quasi cattivi, a furia di esagerarli: il rispetto dell'autorità e l'odio delle ribellioni; e per lui il furto, l'assassinio e tutti i reati in genere eran soltanto forme di ribellione.
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