Tutta la persona di Javert esprimeva l'uomo che spia e si cela. La scuola mistica di Giuseppe de Maistre, che a quell'epoca condiva d'alta cosmogonìa i giornali più retrivi, non avrebbe mancato di dire che Javert era un simbolo. Impossibile vedere la sua fronte, che gli spariva sotto il cappello, né i suoi occhi, che sparivano sotto le sopracciglia, non si vedeva il suo mento, tuffato nella cravatta, né le mani, rientranti nelle maniche, né il bastone, che portava sotto la finanziera; ma se l'occasione capitava, si vedeva all'improvviso uscire da tutta quell'ombra, come da un'imboscata, una fronte angolosa e bassa, uno sguardo funesto, un mento minaccioso, due mani enormi e un mostruoso randello.
Nei suoi momenti d'ozio, poco frequenti, leggeva, sebbene odiasse i libri; così non era del tutto illetterato, e lo si poteva riconoscere da una certa enfasi nel discorrere.
Come abbiam detto, non aveva nessun vizio. Quand'era contento di sé, si concedeva una presa di tabacco; era il suo unico legame coll'umanità.
Si comprenderà senza fatica che Javert era lo sgomento di tutta quella classe che la statistica annuale del ministero di giustizia qualifica sotto la rubrica: vagabondi. Il nome di Javert, se pronunciato, li confondeva, se appariva, la faccia di Javert li impietriva. Siffatto era quest'uomo formidabile.
Javert era come un occhio fisso su Madeleine, un occhio pieno di sospetto e di congetture. Madeleine aveva finito per accorgersene, ma parve che la cosa gli riuscisse insignificante; non rivolse neppure una domanda a Javert, non lo cercò e non l'evitò mai e sopportò, senza sembrare di farvi attenzione, quello sguardo fastidioso e quasi pesante.
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