Non si voltò per Javert; non poteva far a meno di pensare alla povera Fantine e gli conveniva essere gelido.
Javert salutò rispettosamente il sindaco, che gli voltava le spalle. Il sindaco non lo guardò e continuò ad annotare il suo incartamento; Javert fece lentamente due o tre passi nello studio, poi se ne stette immobile senza rompere il silenzio.
Un fisionomista che fosse familiare colla natura di Javert e avesse studiato da molto tempo quel selvaggio al servizio della civiltà, quel composto bizzarro di romano, di spartano, monaco e caporale, quella spia incapace di mentire, quel referendario vergine; un fisionomista che avesse saputo la segreta e antica avversione di lui per Madeleine e il suo conflitto col sindaco a proposito di Fantine, ed avesse considerato Javert in quel momento, si sarebbe chiesto: «Che è mai successo?» Era evidente, per chi avesse conosciuto quella coscienza retta, chiara, sincera, proba, austera e feroce, che Javert usciva da qualche grave avvenimento interiore. Egli non aveva nulla nell'animo, che non trasparisse dal volto; come tutti i violenti era soggetto ai bruschi mutamenti e mai la sua fisionomia era stata più strana e sorprendente. Nell'entrare, s'era inchinato a Madeleine con uno sguardo in cui non v'era né rancore, né collera, né diffidenza, restando a pochi passi dietro la poltrona del sindaco; ora stava lì, ritto in piedi, in atteggiamento quasi d'ordinanza, colla ruvidezza ingenua e fredda d'un uomo che non è mai stato dolce e che è sempre paziente; aspettava, senza una parola, né un movimento, con vera umiltà e tranquilla rassegnazione, che al signor sindaco piacesse di voltarsi, calmo e serio, col cappello in mano e gli occhi bassi, una espressione fra di soldato davanti al superiore e di colpevole davanti al giudice.
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