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      Suor Perpetua era una contadina qualunque, suora di carità per modo di dire, entrata al servizio di Dio come si entra al servizio di chicchessia. Monaca allo stesso modo che si è cuoca. Tipo non raro; gli ordini monastici accettano volentieri questa grossolana terraglia contadinesca, facilmente plasmata a mo' di cappuccio o d'orsolina, roba rustica utilizzata per i bassi servizi della devozione. Il passaggio da bovaro a carmelitano non ha nulla di stridente: si passa dall'uno all'altro senza gran fatica. Il fondo comune d'ignoranza del villaggio e del convento è una base che mette il contadino allo stesso livello del frate; tenete un po' più grande il gabbano, ed avrete un saio. Perpetua era una solida monaca di Marines, vicino a Pontoise, che parlava in dialetto, salmodiava, brontolava, inzuccherava il decotto più o meno in proporzione della bigotteria o dell'ipocrisia dell'infermo, strapazzando gli ammalati; burbera coi moribondi, sembrava voler scaraventar loro Iddio sulla faccia e lapidare l'agonia colle preghiere colleriche; era risoluta, onesta e rubiconda.
      Suor Simplicia era bianca, d'un pallore cereo: vicino a suor Perpetua, era come il cero vicino alla candela. Vincenzo da Paola ha divinamente tracciato la figura della suora di carità in quelle mirabili parole in cui riunisce tanta libertà e tanta servitù: «Esse avranno per monastero solo la casa dei malati, per cella solo una stanza a pigione, per cappella solo la chiesa della loro parrocchia, per chiostro solo le vie della città o le sale degli ospedali, per clausura la sola obbedienza, per inferriata il solo timor di Dio, per velo la sola modestia.


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I miserabili
di Victor Hugo
pagine 1886

   





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