Si recò, come al solito, al letto di dolore di Fantine e prolungò la sua visita, per un istinto di bontà, dicendosi che bisognava far così e raccomandarla bene alle suore, nel caso che gli capitasse di doversi assentare. Sentì vagamente che forse sarebbe stato necessario andare ad Arras e, per nulla deciso a quel viaggio, pure disse a se stesso che, al riparo da ogni sospetto, non v'era alcun inconveniente ad essere testimone di quanto sarebbe succeduto; ritenne quindi il tilbury di Scaufflaire, per essere pronto ad ogni evenienza.
Cenò con sufficiente appetito. Poi, rientrato in camera, si raccolse.
Esaminò la situazione e la trovò sorprendente, tanto che nel mezzo della sua fantasticheria, per un impulso d'ansia quasi inesplicabile, s'alzò dalla sedia ed andò a chiudere la porta col catenaccio. Temeva che qualcos'altro potesse entrare e si barricava contro ogni possibilità.
Un momento dopo, spense la candela: l'infastidiva. Gli sembrava potessero vederlo.
E chi mai?
Ahimè! Quel che aveva voluto mettere alla porta era entrato; quel che aveva voluto accecare lo guardava. La sua coscienza.
La sua coscienza, ossia Dio.
Pure, nel primo momento, s'illuse; ebbe un senso di sicurezza e di solitudine; tirato il catenaccio si credette imprendibile; spenta la candela, si sentì invisibile. Allora egli prese possesso di sé; appoggiò il capo sulla mano e si mise a pensare nelle tenebre.
«A che punto sono? Non sogno, forse? Che cosa m'è stato detto? È proprio vero ch'io abbia visto quel Javert e m'abbia parlato in quel modo?
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