E chi mi ci obbliga? Poi si voltò vivacemente, vide davanti a sé la porta dalla quale era entrato, s'avviò verso di essa, l'aperse ed uscì. Non era più in quella camera; era fuori, in un corridoio, lungo e stretto, tutto a scalini, a guardiole e a gomiti, illuminato qua e là da fanali che parevan lumi da notte per malati: il corridoio dal quale era giunto. Respirò e stette in ascolto: nessun rumore dietro di lui, né davanti. E fuggì, come se l'inseguissero.
Quand'ebbe svoltato parecchi gomiti di quel corridoio, ascoltò di nuovo. V'eran sempre intorno a lui oscurità, silenzio. Ansava e si sentiva vacillare per cui si appoggiò al muro; la pietra era fredda e il sudore gli si agghiacciava sulla fronte. Si risollevò, tremando.
E là, allora, solo, ritto in quell'oscurità, tremando di freddo e, forse, di qualcos'altro, pensò. Aveva pensato tutta la notte, tutto il giorno e sentiva in sé soltanto una voce che diceva: ahimè!
Trascorse così un quarto d'ora. Finalmente, chinò il capo, sospirò con angoscia, lasciò ricader le braccia e tornò sui suoi passi. Camminava lentamente e come accasciato; pareva che qualcuno l'avesse raggiunto nella sua fuga e lo conducesse indietro.
Rientrò nella stanza delle deliberazioni, e la prima cosa che scorse fu la maniglia della porta; rotonda e d'ottone lucido, splendeva agli occhi suoi come una stella spaventosa ed egli la guardava, come una pecora l'occhio d'una tigre. Non poteva staccarne lo sguardo.
Di tanto in tanto faceva un passo e s'avvicinava alla porta.
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