Era inebetito, al cospetto di tutte quelle intelligenze schierate in ordine di battaglia intorno a lui, era come un estraneo, in mezzo a quella società che l'agguantava. Eppure si trattava per lui del più spaventoso avvenire; la verosimiglianza cresceva di minuto in minuto e tutta quella folla guardava con ansietà maggiore della sua quella sentenza piena di calamità che calava sempre più su lui. Un'eventualità lasciava intravedere perfino, oltre la galera, possibile la pena di morte, se l'identità fosse stata riconosciuta e se, più tardi, il processo Gervasino fosse finito con una condanna. Che uomo era, colui? Di che natura era la sua apatìa? Era stupidaggine o astuzia? Comprendeva troppo, o comprendeva nulla? Eran queste le domande che dividevan la folla e sembrava tenessero scissi in due campi i giurati. V'erano in quel processo sgomento e perplessità; il dramma non era soltanto doloroso, era oscuro.
Il difensore aveva arringato abbastanza bene, in quella lingua di provincia che ha costituito a lungo l'eloquenza forense e di cui si servivano un tempo tutti gli avvocati, tanto se si trovavano a Parigi che a Romorantin o a Montbrison e che oggi, divenuta classica, è soltanto parlata dagli oratori ufficiali del foro, ai quali s'addice per la grave sonorità e la forma maestosa; lingua nella quale un marito si chiama un consorte e una moglie una consorte, Parigi, il centro delle arti e della civiltà, il re monarca, monsignor vescovo, un santo pontefice, l'avvocato generale, l'eloquente interprete della pubblica vendetta, l'arringa, gli accenti che sono stati detti or ora, il secolo di Luigi XIV, il gran secolo, un teatro, il tempio di Melpomene, la famiglia regnante, l'augusto sangue dei nostri re, un concerto, una solennità musicale, il signor generale comandante il dipartimento, l'illustre guerriero che, eccetera, gli allievi del seminario, questi teneri leviti, gli errori attribuiti ai giornali, la impostura che distilla il suo veleno nelle colonne di quegli organi, eccetera, eccetera.
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