È vero che l'accusato (e il difensore, «nella sua buona fede», doveva convenirne) aveva adottato «un cattivo sistema di difesa,» ostinandosi a negar tutto, tanto il furto che la sua qualità di detenuto; su quest'ultimo punto, una confessione avrebbe certo servito di più e gli avrebbe conciliato l'indulgenza dei giudici. L'avvocato gliel'aveva consigliato; ma l'accusato vi si era ostinatamente rifiutato, certo credendo di salvar tutto, non confessando nulla. Era in torto; ma non si doveva forse tener conto della pochezza di quella intelligenza? Quell'uomo era visibilmente ebete. Una lunga infelicità in galera, una lunga miseria fuori di essa l'avevano abbrutito eccetera, eccetera. Si difendeva male; ma era quella una ragione per condannarlo? Quanto alla faccenda di Gervasino, l'avvocato non doveva discuterla, perché non era in causa. L'avvocato concludeva, pregando i giurati e la corte, se l'identità di Jean Valjean appariva loro evidente, d'applicargli le pene di polizia che colpiscono il condannato in contravvenzione alla vigilanza e non lo spaventoso castigo che colpisce il recidivo.
Il pubblico ministero replicò al difensore, violento e fiorito, come di solito i pubblici ministeri. Felicitò il difensore della sua «lealtà» e profittò abilmente di questa; colpì l'accusato attraverso tutte le ammissioni che aveva fatto. L'avvocato sembrava convenisse essere l'accusato Jean Valjean ed egli ne prese atto: quell'uomo era dunque Jean Valjean. Per l'accusa, il fatto era provato e non poteva più essere contestato.
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