Poiché fulminare con una parola simile il nemico che v'uccide, significa vincere.
Dar questa risposta alla catastrofe, dire siffatta cosa al destino, dare codesta base al futuro leone, gettar codesta ultima battuta in faccia alla pioggia della notte, al muro traditore d'Hougomont, alla strada incassata d'Ohain, al ritardo di Grouchy e all'arrivo di Blücher; esser l'ironia nel sepolcro, fare in modo di restar ritto dopo che si sarà caduti, annegare in due sillabe la coalizione europea, offrire ai re le già note latrine dei cesari, fare dell'ultima delle parole la prima, mescolandovi lo splendore della Francia, chiudere insolentemente Waterloo col martedì grasso, completare Leonida con Rabelais, riassumer questa vittoria in una parola impossibile a pronunciare, perder terreno e conquistare la storia, aver dalla sua, dopo quel macello, la maggioranza, è una cosa che raggiunge la grandezza eschilea.
La parola di Cambronne fa l'effetto d'una frattura: la frattura d'un petto per lo sdegno, il soverchio dell'agonia che esplode. Chi ha vinto? Wellington? No, perché senza Blücher era perduto. Blücher non avrebbe potuto finire. E quel Cambronne, quel viandante dell'ora estrema, quel soldato ignorato, quell'infinitamente piccolo della guerra sente che lì v'è una menzogna e, straziante aggiunta, una menzogna in una catastrofe; nel momento in cui esplode di rabbia, gli offrono quella derisione che è la vita! Come fare a non scattare?
Eccoli lì, tutti i re d'Europa, ecco i generali fortunati, i Giove tonanti, che hanno centomila soldati vittoriosi e, dietro i centomila, un milione d'altri soldati; i loro cannoni, colle micce accese, spalancano le fauci ed essi tengono sotto il tallone la guardia imperiale e la grande armata; hanno schiacciato or ora Napoleone ed ora resta soltanto Cambronne; rimane solo, a protestare, quel verme.
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