«La chiamerò Caterina,» disse.
Fu un momento bizzarro quello in cui i cenci di Cosette incontrarono e avvolsero i nastri e le mussole nuove e rosee della bambola.
«Signora,» riprese «posso metterla sulla sedia?»
«Sì, bimba mia,» rispose la Thénardier.
Ora, toccava ad Eponina e ad Azelma di guardare con invidia Cosette.
Cosette mise Caterina sopra una sedia, poi sedette in terra davanti ad essa e rimase immobile, nell'atteggiamento della contemplazione.
«Gioca, Cosette,» disse il forestiero.
«Oh, sto giocando!» rispose la bambina.
Quel forestiero, quello sconosciuto che aveva l'aria d'un visitatore inviato dalla provvidenza a Cosette, era in quel momento la cosa che la Thénardier odiava più di qualunque altra al mondo. Eppure, bisognava padroneggiarsi; ma l'emozione era maggiore di quanto non potesse sopportare, per quanto avvezza alla dissimulazione, per lo sforzo di copiare il marito in tutte le sue azioni. Si affrettò a mandare a letto le figlie, poi chiese all'uomo giallo il permesso di mandarvi anche Cosette, che ha molto lavorato, oggi, aggiunse con fare materno; e Cosette andò a letto, portando fra le braccia Caterina.
Di tanto in tanto, la Thénardier si recava all'altra estremità della sala, dov'era il suo uomo, per sfogarsi l'anima, come diceva; e scambiava col marito poche frasi tanto più furiose, in quanto non osava dirle ad alta voce.
«Vecchio somaro! Che cos'ha in corpo? Venirci a rompere le tasche proprio qui! Volere che quel mostricciattolo giochi e regalare bambole da quaranta franchi a una cagna che darei per quaranta soldi!
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