Se si scuoteva quel cordone, tintinnava un campanello e si sentiva una voce, vicinissima, che faceva trasalire.
«Chi è?» chiedeva. Era una voce di donna, dolce; tanto dolce, che finiva per essere lugubre.
Anche qui v'era una magica parola che bisognava conoscere. Se non la si sapeva, la voce taceva e il muro ritornava silenzioso, come se dall'altra parte vi fosse la paurosa oscurità del sepolcro; se invece si sapeva la parola, la voce rispondeva:
«Entrate a destra.»
Allora, alla propria destra, in faccia alla finestra, si notava una porta a vetri sormontata da un telaio pure a vetri e dipinta di grigio. Si sollevava il saliscendi, si varcava la soglia e si provava la stessa impressione di quando, a teatro, si entra in un palchetto, di quelli colla grata, prima che sia abbassata e il lampadario sia acceso; si era infatti in una specie di palchetto da teatro, a mala pena rischiarato dalla luce incerta che filtrava dalla porta a vetri, angusto, ammobiliato con due vecchie sedie e una stuoia dalle maglie disfatte, un vero palchetto col suo davanzale all'altezza dei gomiti, formato da una tavoletta di legno nero. Era munito d'una graticciata; solo, essa non era di legno dorato come all'opera, ma si trattava di un mostruoso traliccio di sbarre di ferro, incrocicchiate e fissate al muro con enormi impiombature, simili a tanti pugni chiusi.
Passati i primi minuti, quando lo sguardo incominciava ad assuefarsi a quella semioscurità da cantina, esso tentava d'oltrepassare la grata, ma non riusciva ad andare oltre sei pollici da essa, perché a quella distanza incontrava una barriera di imposte nere, consolidate e rinforzate da traverse di legno giallo cupo; ciascuna imposta era formata di sottili liste di legno articolate, che mascheravano tutta la larghezza dell'inferriata ed eran sempre chiuse.
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