Per i Gillenormand, Pontmercy era un appestato, ed essi intendevano allevare il bimbo alla loro maniera. Forse, il colonnello ebbe torto d'accettare quelle condizioni; ma le subì credendo di far bene e di sacrificare soltanto se stesso. L'eredità di papà Gillenormand era ben poca cosa, ma quella della signorina Gillenormand maggiore era considerevole. La zia, rimasta zitella, era ricchissima dal lato materno ed il figlio di sua sorella era il suo erede naturale.
Il bimbo, che si chiamava Mario, sapeva d'avere un padre, non più. Nessuno apriva bocca a questo proposito; pure, nella società in cui lo conduceva il nonno, i bisbigli, le mezze frasi e le strizzatine d'occhio s'erano aperte una via, a lungo andare, fino alla mente del piccino, che aveva finito per capire qualche cosa. E siccome egli assumeva naturalmente, per una specie d'infiltrazione e di lenta penetrazione, le idee e le opinioni che erano, per così dire, il suo mezzo respirabile, finì a poco a poco per pensare al padre solo con vergogna e a cuore stretto.
Mentre egli si faceva così grandicello, ogni due o tre mesi il colonnello se la svignava da casa, veniva a Parigi furtivamente, come un vigilato speciale che infranga la sorveglianza e andava a porsi in vedetta a Saint-Sulpice, nell'ora in cui la zia Gillenormand conduceva il piccino alla messa. Là, sempre col timore che la zia si voltasse, nascosto dietro un pilastro, immobile e senza osar respirare, guardava suo figlio. Quello sfregiato aveva paura di una vecchia zitella.
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