Quei salotti non furono a lungo pari. A partire dal 1818, incominciarono a farvi la loro comparsa alcuni dottrinarî, inquietante sfumatura. La tattica di costoro era d'esser realisti e di scusarsene; là dove gli ultra eran fierissimi, i dottrinarî erano un poco vergognosi. Avevano spirito, sapevan tacere e il loro dogma politico era convenientemente sostenuto dall'alterigia: dovevan quindi riuscire. Facevano abuso, utilmente, del resto, di cravatta bianca e giubba abbottonata. Il torto, o la disgrazia, del partito dottrinario è stato di creare la gioventù vecchia. Prendevan pose sapienti, e sognavan d'innestare sul principio assoluto ed eccessivo un potere temperato; opponevano, talvolta con rara intelligenza, un liberalismo conservatore al liberalismo demolitore. Si sentivan dire: «Grazia per il realismo! Esso ha reso più d'un servigio: ha ripristinato la tradizione, il culto, la religione e il rispetto; è coraggioso, fedele, cavalleresco, amante e devoto. Sopravviene a congiungere, sebbene con rammarico, alle nuove grandezze della nazione quelle secolari della monarchia. Ha il torto di non capire la rivoluzione, l'impero, la gloria, la libertà, le giovani idee, le giovani generazioni e il secolo; ma quel torto ch'esso ha verso di noi, non l'abbiamo talvolta noi, verso di esso? La rivoluzione, di cui siamo gli eredi, deve avere la comprensione di tutto; colpire il realismo è il controsenso del liberalismo. Che orrore! Che accecamento! La Francia rivoluzionaria manca di rispetto alla Francia storica, ossia a sua madre, ossia a se stessa.
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