Osservò quella gigantesca cicatrice, che imprimeva l'eroismo su quella faccia, in cui Dio aveva impresso la bontà; pensò che quell'uomo era suo padre e che era morto, e rimase freddo.
La tristezza da lui provata era quella che avrebbe sentita al cospetto di qualunque altro uomo che avesse visto steso, morto.
Il dolore, un dolore straziante, era in quella camera. La serva si lamentava in un cantuccio, il curato pregava e lo si sentiva singhiozzare, il medico s'asciugava gli occhi: perfino il cadavere piangeva. Quel medico, quel prete e quella donna guardavano Mario attraverso la loro afflizione, senza pronunciare una parola: lo straniero era lui. Mario, troppo poco commosso, si sentiva vergognoso e imbarazzato del proprio atteggiamento: teneva il cappello in mano, e lo lasciò cadere per terra, per far credere che il dolore gli togliesse la forza di tenerlo.
Nello stesso tempo, provava come un rimorso e si disprezzava per il suo modo d'agire. Ma era colpa sua? Egli non amava suo padre, ecco!
Il colonnello non lasciava nulla e la vendita dei mobili pagò appena appena la sepoltura. La serva trovò un pezzo di carta, che consegnò a Mario: v'eran scritte queste righe, di pugno del colonnello:
«Per mio figlio. — L'imperatore m'ha fatto barone sul campo di battaglia di Waterloo. Poiché la restaurazione mi contesta questo titolo, che ho pagato col mio sangue, mio figlio lo prenderà e lo porterà. È inutile dire che ne sarà degno».
A tergo, il colonnello aveva aggiunto:
«In quella stessa battaglia di Waterloo, un sergente m'ha salvato la vita.
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