Jean Prouvaire era un grado ancor più dolce di Combeferre. Si chiamava Yhamis, anziché Jean, per una di quelle mode che hanno accompagnato il possente e profondo movimento donde è uscito lo studio tanto necessario del medioevo. Jean Prouvaire era innamorato, coltivava un vaso di fiori, suonava il flauto, faceva versi, amava il popolo, compiangeva la donna, piangeva sul fanciullo, confondeva nella stessa fiducia l'avvenire e Dio e biasimava la rivoluzione d'aver fatto cadere una testa regale, quella d'Andrea Chénier. Aveva la voce di solito delicata e a tratti virile. Soprattutto, era buono; e, cosa semplicissima per chi sa come la bontà confini con la grandezza, in poesia preferiva l'immenso. Sapeva l'italiano, il latino, il greco e l'ebraico; ciò gli serviva a leggere soltanto quattro poeti, Dante, Giovenale, Eschilo ed Isaia. In francese, preferiva Corneille a Racine e Agrippa d'Aubigné a Corneille. Andava volentieri a zonzo per i campi d'avena selvatica e di fiordalisi e s'occupava delle nubi quasi altrettanto che degli avvenimenti; e il suo spirito aveva due inclinazioni, una verso l'uomo, l'altra verso Dio. Studiava o pregava. Tutto il giorno approfondiva le questioni sociali: il salario, il capitale, il credito, il matrimonio, la religione, la libertà di pensiero, il libero amore, l'educazione, la penalità, la miseria, l'associazione, la proprietà, la produzione e la ripartizione, l'enigma, cioè, di quaggiù, che copre d'ombra il formicaio umano; di sera, guardava gli astri, codesti esseri immensi.
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