Egli era in quella stagione della vita in cui lo spirito degli uomini che pensano si compone, quasi in uguali proporzioni, di profondità e d'ingenuità; in una situazione grave, aveva tutto quel che occorre per essere uno sciocco, mentre, con un giro di chiave di più, poteva essere sublime. I suoi modi erano riservati, freddi, cortesi e poco espansivi. La bocca ben disegnata, dalle labbra vermiglie e denti candidi, il suo sorriso correggeva ciò che la sua fisionomia aveva di severo; e in certi momenti, quella fronte casta e quel sorriso voluttuoso formavano un singolare contrasto. Aveva l'occhio piccolo e lo sguardo ampio.
Al tempo della sua peggior miseria, aveva notato che le ragazze si voltavano quando passava; egli se la svignava o si nascondeva, colla morte nell'anima, perché credeva che lo guardassero per i suoi vestiti vecchi e ne ridessero. Invece, esse lo guardavano per la sua grazia e di notte lo sognavano.
Quel muto malinteso fra lui e le belle passanti l'aveva reso selvatico. Non ne scelse mai alcuna, per l'ottima regione che le sfuggiva tutte; e visse così in un modo indefinibile, stupidamente, come diceva Courfeyrac.
Courfeyrac gli diceva pure: «Non aspirare ad essere venerabile» (poiché essi si davan del tu, come tendono a fare tutti gli amici giovani). «Un consiglio, caro amico: non legger tanto nei libri e guarda un po' più le ragazze. Hanno del buono, o Mario, quelle briccone! A forza di scappare e di arrossire, t'abbrutirai.»
Certe altre volte Courfeyrac incontrandolo gli diceva: «Buongiorno, signor abate.
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Courfeyrac Mario Courfeyrac
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