Pur conversando colla maggior naturalezza e tranquillità del mondo coll'uomo dai capelli bianchi, ella faceva vagare su Mario un occhio virgineo e appassionato: antica e immemorabile astuzia, nota ad Eva dal primo giorno del mondo e che ogni donna conosce dal primo giorno di vita! La sua bocca rispondeva all'uno, il suo sguardo all'altro.
Bisogna credere, tuttavia, che il signor Leblanc finisse per accorgersi di qualche cosa, perché, spesso, quando Mario giungeva, s'alzava e si metteva a camminare. Aveva abbandonato il solito posto e aveva scelto, all'altra estremità del viale, la panca vicina al Gladiatore, come per vedere se Mario li avrebbe seguiti. Mario non comprese la cosa e commise quello sbaglio. Il «padre» incominciò a non esser più puntuale e non condusse più seco «la figlia» ogni giorno; talvolta, veniva solo. Allora Mario non rimaneva lì, altro sbaglio.
Mario non badava affatto a quei sintomi; dalla fase della timidezza era passato, progresso naturale e fatale, all'accecamento. Il suo amore cresceva ed egli ne sognava ogni notte. Eppoi gli era capitata una fortuna insperata, olio sul fuoco, più fitte tenebre al suo sguardo: una sera, sull'imbrunire, aveva trovato sulla panca, che «il signor Leblanc e sua figlia» avevano appena lasciata, un fazzoletto, semplice e senza ricami, ma candido e fine, che gli parve esalasse ineffabili profumi. Quel fazzoletto recava le iniziali U. F. Mario non sapeva nulla di quella bella fanciulla, né la famiglia, né il nome, né l'abitazione, e quelle due lettere erano la prima cosa di lei che gli fossero dato di possedere; adorabili iniziali, sulle quali incominciò subito ad architettare congetture.
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