Che concluderne, se non che provenivan tutte dalla stessa persona?
Inoltre, rendeva la congettura ancor più verosimile, la carta, grossolana ed ingiallita, la stessa per tutte, e l'uguale odor di tabacco; così pure, sebbene si fosse evidentemente cercato di variare lo stile, gli stessi errori d'ortografia si riproducevano con una profonda tranquillità e il letterato Genflot non ne era più immune del capitano español.
Scervellarsi a indovinare quel piccolo mistero era fatica inutile. Se non si fosse trattato d'un rinvenimento, la faccenda avrebbe avuto l'aria d'una mistificazione: ora, Mario era troppo triste per prendere in buona parte anche uno scherzo del caso e prestarsi al gioco che il lastrico sembrava volesse fargli. Gli pareva di star giocando a mosca cieca con quelle quattro lettere, che si burlavan di lui.
Del resto nulla indicava che quelle lettere appartenessero alle giovinette incontrate sul viale e, poi, erano cartacce, prive evidentemente di qualunque valore. Perciò Mario le rimise nella busta, buttò tutto in un canto e si coricò.
Verso le sette del mattino, alzatosi e fatto colazione, cercava di mettersi al lavoro, quando fu bussato piano alla sua porta.
Siccome non possedeva nulla, non chiudeva mai a chiave salvo rarissime volte, quando attendeva a qualche lavoro urgente; del resto, anche quando era assente, lasciava la chiave nella toppa. «Vi deruberanno,» diceva mamma Bougon. «Di che cosa?» diceva Mario. Fatto sta che un giorno gli avevan rubato un vecchio paio di stivali, con grande trionfo di mamma Bougon.
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Genflot Mario Mario Bougon Mario Bougon
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