Mario capiva che probabilmente, a giudicar dalla loro fuga della vigilia, dal loro ansimare, dal loro terrore e da quelle parole del gergo che aveva sentito, quelle disgraziate facevano inoltre sinistri mestieri e che ciò aveva avuto per risultato, in seno alla società umana, fatta com'è, due miserabili esseri che non erano né bambine, né ragazze, né donne, ma una specie di mostri impuri ed innocenti prodotti dalla miseria: tristi creature senza nome, senza età, senza sesso, alle quali né il bene né il male sono più possibili e che, uscendo dall'infanzia non hanno già più nulla al mondo, né libertà, né virtù, né responsabilità; anime sbocciate ieri, oggi già appassite, simili a fiori caduti nella via, che il fango insozza, in attesa che una ruota li schiacci.
Mentre Mario fissava su lei uno sguardo stupito e addolorato, la ragazza andava e veniva nell'abbaino con un'audacia da spettro, dimenandosi, senza preoccuparsi della sua nudità; in certi momenti, la camicia sfatta e stracciata le cadeva fin quasi alla vita. Smuoveva le sedie, mutava posto agli oggetti di toeletta posti sul cassettone, toccava gli abiti di Mario e frugava in ogni angolo.
«To'!» disse. «Avete uno specchio.»
E intanto canticchiava, come se fosse stata sola, brani di operette, allegri ritornelli che la sua voce gutturale e rauca rendeva macabri. Pure, sotto quella sfacciataggine trapelavano costrizione, inquietudine, umiliazione: la sfrontatezza è una forma di vergogna.
Non v'era nulla di più sinistro del vederla dibattersi e, per così dire, svolazzare nella stanza coi gesti d'un uccello che la luce spaventi, o che abbia un'ala spezzata.
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Mario Mario
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