Al suo fianco era posato in terra, spalancato, un volume dello stesso formato dell'altro e probabilmente dello stesso romanzo.
Su uno dei lettucci Mario intravedeva una specie di lunga ragazzina: pallida, seduta, quasi nuda, le gambe penzoloni; sembrava non ascoltare, né vedere, né vivere: certo, la sorella minore di colei che era venuta da lui.
Mostrava undici o dodici anni, ma, guardandola bene, si riconosceva che ne aveva già quindici. Era la ragazzetta che la sera precedente, sul viale, diceva:
«Ho corso, ho corso, gambe in spalla.»
Apparteneva a quella specie malaticcia a lungo tardiva che poi fiorisce ad un tratto. L'indigenza produce, tristi piante umane, queste creature che non hanno né infanzia né adolescenza, a quindici anni ne dimostrano dodici e, a sedici, venti: ragazzine oggi, donne domani. Si direbbe che scavalchino la vita, per farla finita più in fretta.
In quel momento, quell'essere aveva l'aspetto d'una bimba.
Del resto, in quella dimora, nulla rivelava la presenza d'un lavoro. Non un tombolo, non un arcolaio, non un utensile; solo in un canto, alcuni ferri d'aspetto dubbio. Era la sinistra indolenza che segue la disperazione e precede l'agonia.
Mario osservò per qualche tempo quel funebre interno, più spaventoso di quello di una tomba, poiché si sentiva muoversi l'anima umana e palpitare la vita.
La stamberga, questa cantina, questo sotterraneo in cui taluni indigenti strisciano nella parte più bassa dell'edificio sociale, non è ancora il sepolcro, ma ne è l'anticamera; solo, al pari di quei ricchi che mettono in mostra le loro più grandi magnificenze all'ingresso del palazzo, sembra che la morte, che è lì a fianco, metta le sue maggiori miserie in quel vestibolo.
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Mario
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