Non nevicava più. La luna, sempre più luminosa, si liberava dalle nebbie, e il suo bagliore, unito al bianco riflesso della neve caduta, dava alla camera un aspetto crepuscolare.
V'era luce, nella topaia Jondrette; Mario vedeva il foro della parete brillare d'una luce rossa, che gli pareva sanguigna. Era certo che quella luce non poteva esser prodotta da una candela; del resto, nessun movimento in casa dei Jondrette. Nessuno si muoveva, nessuno parlava; non un respiro, ma un gelido silenzio profondo; senza quella luce, si sarebbe potuto credersi a fianco d'un sepolcro.
Mario si levò pian piano gli stivali e li spinse sotto il letto.
Passarono alcuni minuti. Sentì la porta di strada stridere sui cardini; un passo pesante e rapido salì la scale, percorse il corridoio, e il nottolino della tana s'alzò con fracasso. Era Jondrette che rientrava.
Subito s'alzarono parecchie voci. Tutta la famiglia era nella stamberga; soltanto, essa taceva in assenza del capo, come i lupatti durante l'assenza del lupo.
«Sono io,» disse.
«Buona sera, paparino!» miagolarono le figlie.
«Ebbene?» chiese la madre.
«Tutto benone,» rispose Jondrette; «ma ho un freddo cane ai piedi. Bene: vedo che ti sei vestita. Bisognerà che tu possa ispirare fiducia.»
«Sono tutta pronta per uscire.»
«Non dimenticherai nulla di quello che t'ho detto? Farai tutto bene?»
«Sta' tranquillo.»
«Perché...» disse Jondrette, che non finì la frase.
Mario intese ch'egli deponeva sulla tavola qualche cosa di pesante, probabilmente lo scalpello acquistato.
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