Le sue perplessità eran cresciute. Del resto, v'era in tutte quelle frasi del Thénardier, nell'accento, nel gesto, nello sguardo che faceva scaturire fiamme da ogni parola, in quell'esplosione d'una malvagia natura che mostrava tutto, in quel miscuglio di fanfaronate e d'abbiezioni, d'orgoglio e di meschinità, di rabbia e di sciocchezza, in quel caos di risentimenti veri e di sentimenti falsi, in quell'impudicizia d'un malvagio che assapora la voluttà della violenza, in quella sfrontata nudità di un'anima sconcia, in quella conflagrazione di tutti i dolori combinati con tutti gli odii, qualche cosa di orrendo come il male e straziante come il vero.
Il dipinto d'autore, il quadro di David di cui aveva proposto l'acquisto al signor Leblanc non era altro, come il lettore avrà indovinato, che l'insegna della sua taverna dipinta, come si ricorda, da lui stesso, e unico relitto serbato dal naufragio di Montfermeil.
Siccome aveva cessato d'intercettare la visuale di Mario, questi poteva ora osservare quella cosa e in quel pasticcio riconosceva per davvero una battaglia, uno sfondo di fumo e un uomo che ne portava un altro. Era il gruppo di Thénardier e di Pontmercy, il sergente salvatore e il colonnello salvato. Mario era quasi fuori di sè: quel quadro, in certo qual modo, faceva rivivere suo padre, non era più l'insegna della bettola di Montfermeil, ma una resurrezione. Una tomba si schiudeva, un fantasma si rizzava. Mario sentiva il cuore pulsargli nelle tempie, aveva nell'orecchio il cannone di Waterloo, e suo padre, vagamente dipinto tutto insanguinato su quel sinistro telaio, lo sgomentava, poiché gli pareva che quell'informe profilo lo guardasse fisso.
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