Se ne andarono, e basta. Deposero la corona e non conservarono l'aureola; furono degni, non furono augusti. Mancarono, entro dati limiti, alla maestà della loro disgrazia. Carlo X, il quale, durante il viaggio di Cherbourg, faceva trasformare una tavola rotonda in una quadrata, parve molto più preoccupato dell'etichetta in pericolo che della monarchia crollante; e questa diminuzione rattristò le persone devote che li amavan come uomini, e quelle serie che onoravan la loro razza. Il popolo, per conto suo, fu mirabile. La nazione assalita un mattino a mano armata da una specie d'insurrezione regale, si sentì tanta forza, che non ebbe collera: si difese, si contenne, rimise le cose a posto, il governo nella legge e i Borboni nell'esilio e, ahimè! si fermò. Prese il vecchio re Carlo X sotto quel baldacchino che aveva ricoperto Luigi XIV e lo posò dolcemente a terra; toccò le persone regali solo con tristezza e precauzione. Non fu già un uomo, non pochi uomini, ma la Francia, tutta la Francia; la Francia vittoriosa e inebbriata della sua vittoria sembrò ricordarsi e praticare al cospetto del mondo intero codeste gravi parole di Guglielmo Du Vair, dopo la giornata delle barricate: «È agevole a coloro che hanno l'abitudine di sfiorare i favori dei grandi e di saltellare, come un uccello di ramo in ramo, da una fortuna afflitta ad una fiorente, mostrarsi audaci contro il loro principe nell'avversità; ma per me la fortuna dei miei re mi sarà ognor venerabile, e principalmente di quelli afflitti».
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