Ogni rivoluzione, essendo un completamento normale, contiene in sé la propria legittimità, che talvolta qualche falso rivoluzionario disonora, ma che persiste, anche se insozzata, e sopravvive, anche se insanguinata. Le rivoluzioni provengono, non da un accidente, ma dalla necessità; una rivoluzione è un ritorno dall'artificioso al reale. Esiste, perché bisogna che esista.
Non per questo i partiti legittimisti s'astennero dall'attaccare la rivoluzione del 1830 con tutte le violenze che scaturiscono dal falso ragionamento. Gli errori sono ottimi proiettili ed essi la colpivano sapientemente dov'era vulnerabile, dove le mancava la corazza, ossia nella sua mancanza di logica; attaccavan quella rivoluzione nella regalità. Dicevano: «Perché questo re, rivoluzione?» Le fazioni sono ciechi che mirano giusto.
Quel grido mandavano anche i repubblicani; ma, da loro, era logico. Quel ch'era cecità nei legittimisti era chiaroveggenza nei democratici: il 1830 aveva fatto bancarotta nei riguardi del popolo e la democrazia indignata glielo rimproverava.
Fra l'attacco del passato e quello dell'avvenire, l'assetto di luglio andava dibattendosi: esso rappresentava il minuto, alle prese, da una parte, coi secoli monarchici, e, dall'altra col diritto eterno.
Inoltre, all'esterno, non essendo più rivoluzione divenuta monarchia, il 1830 era costretto a mettersi al passo coll'Europa, a conservare la pace, sovraccarico di complicazioni. Un'armonia voluta controsenso è spesso più onerosa d'una guerra; da quel sordo conflitto, sempre imprigionato nella museruola, ma sempre brontolante, nacque la pace armata, rovinoso espediente della civiltà sospetta a se stessa.
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Europa
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