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      Sul meriggio mille farfalle bianche vi si rifugiavano ed era uno spettacolo divino veder là turbinare a fiocchi, nell'ombra, quella neve vivente dell'estate. Là, in quelle gioconde tenebre della verzura, una quantità di voci innocenti parlavano dolcemente all'anima, e ciò che il cinguettìo s'era scordato di dire, il ronzìo completava. Di sera, una nebbiolina di sogno si sprigionava dal giardino e l'avviluppava: un lenzuolo di nebbia, una tristezza celeste e calma lo ricoprivano; l'odore così inebbriante dei caprifogli e dei convolvoli ne usciva da ogni parte, come un veleno squisito e sottile. Si sentivano gli ultimi richiami dei picchi e delle cutrettole, che s'assopivano sotto i rami; vi si sentiva quell'intimità sacra dell'uccello e della pianta, per cui, di giorno, le ali rallegrano le foglie e, di notte, le foglie proteggono le ali.
      D'inverno, il macchione era nero, umido, irto e tremante dal freddo e lasciava un po' a vedere la casa. Si scorgevano anziché i fiori nei rami e la rugiada nei fiori, i lunghi nastri argentei delle lumache sul freddo e folto tappeto delle foglie secche; ma in ogni modo e sotto tutti gli aspetti, in tutte le stagioni, primavera, inverno, estate e autunno, quel piccolo recinto spirava la malinconìa, la solitudine, la libertà, l'assenza dell'uomo, la presenza di Dio; e la vecchia cancellata corrosa aveva l'aria di dire: «Questo giardino è mio.»
      Il lastrico di Parigi aveva un bell'essere lì, intorno intorno, al pari dei palazzi classici e splendidi di via Varennes a due passi dalla cupola degli Invalidi, vicinissima, e della camera dei deputati, poco discosta; le carrozze di via Borgogna e di via San Domenico avevano un bel correre fastosamente nelle vicinanze e gli omnibus gialli, grigi, bianchi e rossi avevano un bell'incrociarsi nel vicino quadrivio: il deserto regnava in via Plumet, e la morte degli antichi proprietarî, una rivoluzione passata, il crollo delle antiche fortune, l'assenza, l'oblio, quarant'anni d'abbandono e di vedovanza eran bastati per ricondurvi le felci, i tassobarbassi, le cicute, le achillee, le digitali, le erbe alte, le grandi piante dai colori varii, dalle ampie foglie di tessuto verde pallido, le lucertole, gli scarabei, gli insetti inquieti e rapidi; eran bastati per far uscire dalle profondità della terra e far riapparire fra quelle quattro mura non so quale grandezza selvatica e fiera, e per far sì che la natura, la quale sconcerta i meschini piani dell'uomo e si spande sempre completamente, là dove si manifesta, tanto nella formica, quanto nell'aquila, venisse a sbocciare in un brutto giardinetto parigino con altrettanto rustica maestà che in una foresta vergine del Nuovo Mondo.


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I miserabili
di Victor Hugo
pagine 1886

   





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