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Ora accadde che l'amore le si presentasse per l'appunto nel modo che più conveniva al suo stato d'animo. Era una specie d'adorazione a distanza, una contemplazione muta, la deificazione d'un ignoto; era apparizione dell'adolescenza all'adolescenza, il sogno delle notti divenuto romanzo e rimasto sogno, il fantasma desiderato, realizzato finalmente e fatto carne, ma ancor senza nome, senza torti, né esigenze, né difetti; in una parola, l'amabile lontano rimasto nell'ideale, una chimera personificata. Qualunque incontro più tangibile e più vicino avrebbe in quella prima epoca sgomentato Cosette, ancor immersa parzialmente nella densa nebbia del chiostro. Ella aveva tutte le paure dei fanciulli e quelle delle suore, congiunte; lo spirito del convento, che l'aveva compenetrata per cinque anni, s'evaporava ancora lentamente da tutta la sua persona e faceva tutto tremolare intorno a lei. In quella situazione, non era un amante che le occorreva, e neppure un innamorato, ma una visione; ed ella si mise ad adorare Mario come qualche cosa d'incantevole, di luminoso e impossibile.
Siccome l'estrema ingenuità confina coll'estrema civetteria, ella gli sorrideva con tutta franchezza.
Aspettava ogni giorno l'ora della passeggiata con impazienza, vi trovava Mario e si sentiva indicibilmente felice; tanto che credeva d'esprimere con sincerità tutto il suo pensiero, dicendo: «Che giardino delizioso, questo Lussemburgo!»
Mario e Cosette erano all'oscuro l'uno dell'altra. Non si parlavano, non si salutavano e non si conoscevano; si vedevano e, come gli astri del cielo, che milioni di leghe separano, vivevano di quel vedersi.
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