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      V'era inoltre in quella frase di Montparnasse una bellezza letteraria che sfuggì a Gavroche, ossia il mio dogo, la mia daga e la mia diga, locuzione del Tempio che significa il mio cane, il mio coltello e la mia donna, assai usata fra i buffoni e i pagliacci del gran secolo in cui Molière scriveva e Callot disegnava.
      Vent'anni or sono, si vedeva ancora all'angolo sud-est di piazza della Bastiglia, vicino alla darsena del canale, scavata nell'antico fossato della prigione cittadella, un monumento bizzarro che si è già cancellato dalla memoria dei parigini e che meritava di lasciar traccia di sé, poiché era un'idea del «membro dell'Istituto e generale in capo dell'esercito d'Egitto»
      Diciamo monumento, sebbene fosse solo un bozzetto. Ma, così com'era, abbozzo prodigioso, cadavere grandioso di un'idea di Napoleone, che due o tre ventate successive avevan portato via e buttato ogni volta più lontano da noi, era divenuto storico ed aveva assunto alcunché di definitivo, che contrastava col suo aspetto provvisorio. Era un elefante di quaranta piedi d'altezza, in legno e muratura, che portava sul dorso una torre e somigliava ad una casa, già dipinto in verde da un imbianchino ed ora in nero dal cielo, dalla pioggia e dal tempo. In quell'angolo deserto e squallido della piazza, l'ampia fronte del colosso, la sua proboscide, le zanne, la torre, l'enorme groppa e i quattro piedi simili a colonne disegnavano, di notte, sul cielo stellato, un profilo sorprendente e terribile. Non si sapeva che cosa volesse dire; era una specie di simbolo della forza popolare, un fantasma possente, visibile, ritto in piedi a fianco dello spettro invisibile della Bastiglia.


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I miserabili
di Victor Hugo
pagine 1886

   





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