Pochi stranieri facevano visita a quell'edificio e nessun viandante lo guardava. Andava in rovina; ad ogni istante, i calcinacci che cadevano dai suoi fianchi gli producevano luride ferite. Gli «edili», come si dice in gergo elegante, l'avevan dimenticato dopo il 1814; stava lì nel suo cantuccio, malato, crollante, circondato da una palizzata imputridita, ogni momento insozzata dai cocchieri ubriachi; crepe gli solcavano il ventre, un travicello gli usciva dalla coda, e alte erbe crescevan fra le gambe; e poiché il livello della piazza andava alzandosi da trent'anni tutto intorno, per quel movimento lento e continuo che solleva insensibilmente il suolo delle grandi città, esso si trovava in un avvallamento del terreno e pareva che la terra gli si sprofondasse sotto. Era immondo, disprezzato, ripugnante e superbo, brutto allo sguardo del buon borghese, malinconico a quello del pensatore. Aveva alcunché di un'immondizia che si stia per scopare e d'una maestà che si stia per decapitare.
Come abbiamo detto, di notte l'aspetto cambiava; infatti la notte è il vero ambiente di tutto ciò ch'è ombra. Quando cadeva il crepuscolo, il vecchio elefante si trasfigurava: assumeva un aspetto tranquillo e temibile, nella grandiosa serenità delle tenebre. Appartenendo al passato, e perciò alle tenebre, quell'oscurità gli si confaceva.
Quel monumento, rozzo, massiccio, pesante, sgraziato e austero, quasi deforme, ma senza dubbio maestoso e con una specie di gravità magnifica e selvaggia, è scomparso per lasciar regnare in pace quella sorta di gigantesca stufa col lungo tubo, che ha sostituito la cupa fortezza dalle nove torri, all'incirca come la borghesia sostituisce il feudalismo.
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