I borghesi vestiti a festa che passavano davanti all'elefante della Bastiglia dicevano volentieri, squadrandolo con aria di disprezzo coi loro occhi a fior di testa: «A che serve quel coso?» Quel coso serviva a salvare dal freddo, dalla brina, dalla grandine e dalla pioggia, a difendere dal vento d'inverno, a preservare dal sonno nel fango, che dà la febbre, e dal sonno nella neve, che dà la morte, un piccolo essere senza padre né madre, senza vesti, senza asilo. Serviva a raccogliere l'innocente che la società respingeva; serviva a diminuire la pubblica colpevolezza: era una tana aperta a colui al quale tutte le porte erano chiuse. Pareva che il vecchio mastodonte miserabile, invaso dai parassiti e dall'oblio, coperto di verruche, di muffa e d'ulceri, vacillante, imputridito, abbandonato e condannato, specie di mendicante colossale che chiedesse invano l'elemosina d'uno sguardo benevolo in mezzo al quadrivio, avesse avuto compassione, egli, di quell'altro mendicante, di quel povero pigmeo che vagava senza suole alle scarpe, senza soffitto sopra il capo, soffiandosi sulle dita, vestito di cenci e nutrito di quel che gli buttavano. Ecco a che cosa serviva l'elefante della Bastiglia. Quell'idea di Napoleone, sprezzata dagli uomini, era stata ripresa da Dio, e quello che non sarebbe stato che illustre era divenuto augusto. All'imperatore sarebbero occorsi, per realizzare ciò ch'egli meditava, porfido, bronzo, ferro, oro, marmo; a Dio bastava quel vecchio cumulo di tavole, di travicelli e di calcinacci.
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