S'erano distesi tutti e tre sulla stuoia; per piccini che fossero, nessuno di essi avrebbe potuto star ritto nell'interno dell'alcova. Gavroche aveva sempre in mano il sorcio di cantina.
      «Ed ora,» disse «ronfate! Sto per sopprimere il candelabro.»
      «Signore,» chiese il maggiore dei due a Gavroche, indicandogli la rete «che cos'è questa cosa?»
      «Questa,» rispose gravemente Gavroche «è per i topi.»
      Pure, egli si credette in obbligo d'aggiunger qualche parola, per istruire quegli esseri in tenera età, e continuò:
      «Sono cose del Giardino Zoologico, che servono alle bestie feroci. Ce n'è un magazzino pieno; basta salire sopra un muro, arrampicarsi su una finestra e passare sotto una porta. Ce n'è fin che se ne vuole.»
      Mentre parlava, ravvolgeva in un lembo della coperta il più piccolo, che mormorò:
      «Oh, bene! Tiene caldo!»
      Gavroche diede uno sguardo soddisfatto alla coperta.
      «Anche questa è del Giardino Zoologico,» disse. «L'ho presa alle scimmie.»
      E mostrando al maggiore la stuoia sulla quale era coricato, spessissima e mirabilmente lavorata, aggiunse:
      «Questa era della giraffa.»
      Dopo una pausa, proseguì:
      «Le bestie avevano tutta questa roba. Gliel'ho presa, ma non si sono arrabbiate. Ho detto: 'È per l'elefante'.»
      Fece ancora una pausa e riprese:
      «Si scavalcano i muri, infischiandosene del governo. Ecco tutto.»
      I due fanciulli osservarono con un rispetto timoroso e stupefatto quell'essere intrepido e inventivo, vagabondo come loro, isolato, meschino, e che aveva qualche cosa di miserabile e di onnipossente, che sembrava loro soprannaturale, e la fisionomia del quale si componeva di tutte le smorfie d'un vecchio saltimbanco, unite al più ingenuo e al più incantevole sorriso.