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«E poi,» osservò timidamente il maggiore, il solo che osasse discorrere con Gavroche e rispondergli, «una scintilla potrebbe cadere sulla paglia e bisogna stare attenti a non bruciar la casa.»
«Non si dice bruciare la casa,» fece Gavroche; «si dice riscaldare la taverna.»
Il temporale cresceva; si sentiva, attraverso agli scrosci di tuono, l'acquazzone che flagellava la schiena del colosso.
«Gabbata, la pioggia!» disse Gavroche. «Come mi diverte sentir gocciolare la caraffa lungo le gambe della casa! L'inverno è sciocco: perde il tempo, perde la fatica, non ci può bagnare, e ciò lo fa brontolare, da quel vecchio portatore d'acqua che è!»
Quell'allusione al tuono, della quale Gavroche, nella sua qualità di filosofo del secolo decimonono, accettava tutte le conseguenze, fu seguita da un gran lampo, così sfolgorante, che qualche cosa di esso entrò dal crepaccio nel ventre dell'elefante. Quasi contemporaneamente, scoppiò con gran furia il fulmine. I due piccini gettarono un grido e si sollevarono così vivamente, che la rete ne fu quasi smossa; ma Gavroche volse verso di loro il viso coraggioso e approfittò di quella scarica per scoppiare in una risata.
«Calma, ragazzi. Non scuotiamo l'edificio. Ecco un bel fulmine, perbacco! Non è mica un lampo da strapazzo! Bravo il buon Dio! Sacr..., è riuscito quasi bene come all'Ambigu!»
Detto questo, rimise in ordine la rete, spinse dolcemente i due fanciulli sul capezzale del letto, premette loro le ginocchia, per distenderli bene in tutta la lunghezza ed esclamò:
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Gavroche Gavroche Gavroche Gavroche Gavroche Dio Ambigu
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