Nulla di più triste del contemplare così a nudo, alla luce del pensiero, il formicolìo spaventoso del gergo; sembra, infatti, ch'esso sia una specie di bestia orribile, fatta per l'oscurità, strappata dalla sua cloaca. Si crede di vedere uno spaventoso cespuglio vivente e irto, che trasalisca, si muova, s'agiti, chieda ancora l'ombra, minacci e guardi. La tal parola assomiglia a un artiglio, la tal'altra ad un occhio spento e sanguinoso; la tale frase pare si muova come le pinze d'un granchio. E il tutto vive di quell'orribile vitalità delle cose che si sono organizzate nella disorganizzazione.
Ma infine, da quando in qua l'orrore esclude lo studio? Da quando in qua la malattia allontana il medico? Si immagina un naturalista che si rifiutasse di studiare la vipera, il pipistrello, lo scorpione, la scolopendra, la tarantola e li ricacciasse nel buio, dicendo: «Oh, come sono brutti»? Il pensatore che torcesse gli occhi dal gergo assomiglierebbe ad un chirurgo che volgesse altrove lo sguardo davanti ad un'ulcera o a una verruca; sarebbe come un filologo che esitasse ad esaminare un fatto della lingua, come un filosofo che esitasse a scrutare un fatto dell'umanità. Poiché (bisogna pur dirlo a coloro che l'ignorano), il gergo è contemporaneamente un fenomeno letterario e un risultato sociale. Che cos'è il gergo propriamente detto? È la lingua della miseria.
Qui, taluno potrebbe interromperci per generalizzare il fatto, il che è talvolta una maniera d'attenuarlo; e potrebbe dirci che tutti i mestieri, tutte le professioni, si potrebbe quasi aggiungere tutti gli accidenti della gerarchia sociale e tutte le forme dell'intelligenza, hanno il loro gergo.
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