Non v'è nulla di più strano di queste parole, che mascherano e che indicano; alcune di esse, il rabouin, per esempio, sono nello stesso tempo grottesche e terribili e vi fanno l'effetto d'una smorfia ciclopica.
Secondariamente, la metafora. La peculiarità d'una lingua che vuol tutto dire e tutto nascondere, è d'abbondare di figure; poiché la metafora è un enigma in cui si rifugia il ladro che complotta un colpo o il prigioniero che combina un'evasione. Nessun idioma è più metaforico del gergo: svitare il cocco, torcere il collo; attorcigliare, mangiare; essere affastellato, esser giudicato; un topo, un ladro di pane; lanzicchenare, piovere, vecchia figura evidente, che porta in certo qual modo la sua data con sé, assimilando le lunghe linee oblique della pioggia alle picche folte e inclinate dei lanzichenecchi e fa stare in una sola parola la metonimia popolare francese: piovon alabarde. Talvolta, a mano a mano che il gergo transita dalla prima epoca alla seconda, talune parole passano dallo stato selvaggio e primitivo al senso metaforico. Il diavolo cessa d'essere il rabouin e diventa il fornaio, colui che inforna; è più fine, ma meno grande, qualche cosa come Racine dopo Corneille, come Euripide dopo Eschilo.
Certe frasi del gergo, che tengono delle due epoche ed hanno contemporaneamente un carattere barbaro e metaforico, somigliano a fantasmagorie: Les sorgueurs vont sollicer des gails à la lune (i vagabondi, di notte, vanno a rubare i cavalli); ecco una frase che passa davanti alla mente come un gruppo di spettri.
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