Così il larton (il pane) diventa il lartif; il gail (il cavallo) diventa il gaye; la fertanche (la paglia), la fertille; il momignard (il fanciullo), il momacque; i siques (gli stracci), i frusqueh; la chique (la chiesa), l'égrugeor; il colabre (il collo), il colas. Il diavolo è dapprima il gahisto, poi il rabouin, poi il boulanger; il prete è il ratichon, poi il sanglier; il pugnale è il vingt-deux, poi il surin, poi il lingre; i poliziotti sono i railles, poi i roussins, poi i rousses, poi i marchand de lacets, poi i coqueurs, poi i cognes; il boia è il taule, poi Chorlot, poi l'atigeun, poi il becquillard. Nel secolo decimosettimo, battersi si diceva: Darsi il tabacco; nel decimonono, si dice rasparsi la gola: e venti locuzioni diverse sono passate fra queste due estreme. Cartouche parlerebbe ebraico per Lacenaire. Tutte le parole di questa lingua sono perpetuamente in fuga, come gli uomini che le pronunciano.
Pure, di tanto in tanto, appunto per quello stesso movimento, il gergo antico riappare e ridiventa nuovo. Esso ha i suoi capoluoghi dove si conserva; così il Tempio conservava il gergo del decimosettimo secolo e Bicêtre, quand'era prigione, conservava quello di Thune. Vi si sentiva la terminazione in anche dei vecchi paltonieri: Boyanches-tu? (bevi?) per bois-tu? E il croyanche (egli crede), per il croit. Ma non per questo il moto perpetuo cessa d'esser la sua legge.
Se il filosofo riesce a fissare per un momento, per osservarla, questa lingua che sfuma senza posa, cade in dolorose ed utili meditazioni.
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