La catena era troppo corta perché potessero coricarsi; ed essi rimanevano immobili in quella cantina, in quell'oscurità, sotto quella trave, quasi appesi, costretti a sforzi inauditi per raggiungere il pane e la brocca, colla vòlta sul capo e col fango fino a mezza gamba, cogli escrementi che colavan loro lungo i garretti, ridotti a pezzi dalla stanchezza, inflettendosi sulle anche e sulle ginocchia, appendendosi colle mani alla catena per riposarsi, potendo dormire solo in piedi, svegliandosi ad ogni momento, per la strozzatura del collare; taluni non si risvegliavano neppure. Per mangiare, facevano risalire col tallone lungo la tibia fino a portata di mano, il pezzo di pane che veniva loro gettato nel fango. Quanto tempo rimanevano così? Un mese, due mesi, talvolta sei: un tale vi rimase un anno. Era l'anticamera della galera: e vi si era messi per una lepre rubata al re. In quel sepolcro-inferno, che cosa facevano? Quel che si può fare in un sepolcro, agonizzare, e in un inferno, cantare. Poiché, dove non v'è più la speranza, resta il canto: nelle acque di Malta, quando s'avvicinava una galera, si sentiva il canto prima di sentire i remi. Il povero cacciatore di frodo Survincent, ch'era passato attraverso la prigione-cantina del Chatelet, diceva: Sono le rime che mi hanno sostenuto. Inutilità della poesia: a che scopo le rime? E in quella cantina sono nate quasi tutte le canzoni del gergo; da quella segreta del Gran Châtelet di Parigi viene il melanconico ritornello della galera di Montgomery: Timalouimisaine timoulamison.
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