Nulla di più lugubre di codeste rappresaglie pittoriche, sopra un mazzo di carte, al cospetto dei roghi che arrostivano i contrabbandieri e della caldaia che bolliva i falsi monetarî. Le varie forme che il pensiero prendeva nel regno del gergo, perfino la canzone, perfino la beffa, la minaccia, avevan tutte quel carattere di impotenza triste; tutti i canti, alcune melodie dei quali sono state raccolte, erano umili e lamentevoli fino alle lagrime. Il pègre si chiama il povero pègre ed è sempre la lepre che si nasconde, il sorcio che scappa, l'uccello che fugge. È molto se reclama; si limita a sospirare. Uno dei suoi gemiti è giunto fino a noi: Je n'entrave que le dail comment meck, le daron des orgues, peut atiger ses mômes et ses momignards et les locher criblant sans être atigé lui-même (non capisco come mai Dio, il padre degli uomini, possa torturare i suoi figli e i suoi nipoti e sentirli gridare, senz'essere torturato egli stesso). Il miserabile, ogni qual volta ha il tempo di pensare, si fa piccolo davanti alla legge e meschino davanti alla società; si getta bocconi, supplica e cerca di toccare il tasto della compassione. Si sente che sa d'aver torto.
Verso la metà del secolo scorso, avvenne un cambiamento. I canti di prigione e i ritornelli dei ladri presero, per così dire, un atteggiamento insolente e baldanzoso. Il lamentoso maluré fu sostituito da larifla. Si ritrova nel decimottavo secolo, in quasi tutte le canzoni delle galere, degli ergastoli e delle ciurme, un'allegria diabolica ed enigmatica; vi si sente codesto ritornello stridente e saltellante, che si direbbe illuminato da un bagliore fosforescente e che sembra buttato là nel bosco da un fuoco fatuo che suoni il piffero:
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Dio
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