La nostra civiltà, opera di venti secoli, ne è ad un tempo il mostro e il prodigio; vale la pena d'esser salvata, e lo sarà. Sollevarla, è già molto; rischiararla, è qualche cosa di più. Tutto il travaglio della filosofia sociale moderna deve convergere verso questo scopo. Il pensatore, oggi, ha un grande dovere: auscultare la civiltà.
Ripetiamolo, questa auscultazione incoraggia; e con tale insistenza all'incoraggiamento vogliamo finire queste poche pagine, intermezzo austero d'un dramma doloroso. Sotto la mortalità sociale si sente l'imperituro durare dell'umanità. Il globo non muore, per il fatto di aver qua e là quelle ferite che sono i crateri e quelle pustole che sono le solfatare, o perché un vulcano giunge a suppurazione ed emette il suo pus; così, le malattie del popolo non uccidono l'uomo.
Eppure, chiunque segua la clinica sociale, di tanto in tanto, crolla il capo. Anche i più forti, i più teneri ed i più logici hanno le loro ore di scoraggiamento.
Giungerà l'avvenire? Pare che quasi ci si possa fare questa domanda, quando si vede tanta ombra terribile, nel sinistro cozzo degli egoisti e dei miserabili. Da parte degli egoisti, i pregiudizî, le tenebre dell'educazione ricca, l'appetito che cresce coll'ebbrezza, uno stordimento di prosperità che assorda e il timore di soffrire che, in taluni, giunge fino all'avversione per i sofferenti, una soddisfazione implacabile, l'io tanto gonfiato da chiudere l'anima; da parte dei miserabili, il desiderio, l'invidia, l'odio di vedere gli altri godere, i profondi aneliti della bestia umana verso i godimenti, i cuori ottenebrati, la tristezza, il bisogno, la fatalità, l'ignoranza impura e semplice.
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