Mario non metteva mai piede in casa. Quand'era con Cosette, si nascondevano entrambi in un cantuccio vicino alla scalinata, per non esser né visti né intesi dalla via e sedevano, contentandosi spesso, per tutta conversazione, di stringersi la mano venti volte al minuto, guardando i rami degli alberi. In quel momento, se il fulmine fosse caduto a trenta passi da loro, non se ne sarebbero accorti, tanto l'uno s'assorbiva e s'immergeva profondamente nell'altra.
Fra essi e la via v'era tutto il giardino. Ogni qual volta Mario entrava od usciva, aveva cura di rimettere a posto la sbarra della cancellata, in modo che non fosse visibile alcuno spostamento. Se ne andava di solito verso mezzanotte e rientrava in casa di Courfeyrac, il quale diceva a Bahorel:
«Lo crederesti? Mario, adesso, rientra verso la una del mattino!»
E Bahorel rispondeva:
«Che vuoi farci? V'è sempre un petardo in ogni seminarista.»
Certe volte, Courfeyrac incrociava le braccia, prendeva un'aria seria e diceva a Mario:
«Sei mal avviato, giovanotto!»
Courfeyrac, uomo pratico, non vedeva di buon occhio quel riflesso d'un paradiso invisibile su Mario; poco avvezzo alle passioni inedite, se ne spazientiva e faceva di tanto in tanto a Mario intimazioni di rientrare nella realtà. Un mattino, gli buttò addosso codesto monito:
«Mio caro, tu mi fai l'effetto, in questo momento, d'esser nella luna, regno del sogno, provincia dell'illusione, capitale Bolla di Sapone. Suvvia, sii buono: come si chiama?»
Ma nulla poteva «far parlare» Mario.
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