La sua tenerezza inacidita finiva sempre per ribollire e trasformarsi in indignazione; era giunto a quel punto in cui si cerca di prendere una decisione, accettando magari ciò che strazia; e andava convincendosi che non v'era alcuna ragione perché Mario tornasse, che, se avesse dovuto tornare, l'avrebbe già fatto e che bisognava rinunciarvi. Tentava d'abituarsi all'idea che tutto era finito e ch'egli sarebbe morto senza rivedere «quel signore». Ma tutta la sua natura si rivoltava; la sua vecchia paternità non poteva acconsentire: «Come!» diceva, ed era il suo doloroso ritornello. «Non tornerà?» La sua testa calva era ricaduta sul petto, mentre triste fissava vagamente sulla cenere del focolare uno sguardo triste ed irritato.
Mentr'era immerso in quella meditazione, il suo vecchio domestico, Basco, entrò e chiese:
«Signore, può ricevere il signor Mario?»
Il vecchio si rizzò a sedere, pallido come un cadavere sotto l'azione d'una scossa galvanica: tutto il sangue gli era rifluito al cuore. Balbettò:
«Quale signor Mario?»
«Non lo so,» rispose Basco, intimidito e sconcertato dall'aria del padrone; «io non l'ho visto. È stata Nicoletta a dirmi: Mario>.»
«Fate entrare.»
E rimase immobile, la testa vacillante e lo sguardo fisso sulla porta. Questa s'aperse e un giovane entrò: era Mario.
Si fermò sulla soglia, come se aspettasse che gli venisse detto d'entrare. Il suo abito quasi consunto non si scorgeva nell'oscurità che il paralume diffondeva intorno; si distingueva solo il suo volto calmo e grave, ma stranamente triste.
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