Papà Gillenormand, inebetito dallo stupore e dalla gioia, per qualche momento non vide che una luce, come al cospetto di un'apparizione.
Stava per svenire; scorse Mario come in un nimbo: era proprio lui, era proprio Mario!
Finalmente! Dopo quattro anni! Lo ghermì, per così dire, con una sola occhiata; lo trovò bello, nobile, distinto, cresciuto e fatto uomo, con atteggiamento dignitoso e aspetto pieno di fascino. Gli venne voglia di aprirgli le braccia, di chiamarlo, di precipitarglisi incontro; commosso, rapito, le parole affettuose gli facevano gruppo, traboccandogli dal petto; e infine tutta quella tenerezza s'aperse un varco e gli giunse alle labbra. Ma, per quel contrasto al fondo della sua natura, ne uscì una dura espressione; disse bruscamente:
«Che venite a fare, qui?»
«Signore...»
Gillenormand avrebbe voluto che Mario gli si fosse gettato fra le braccia, e fu malcontento di lui e di sé. Sentì ch'egli era brusco e Mario freddo; per il buon vecchio, era un'insopportabile e irritante ansietà sentirsi così tenero e commosso dentro e non poter essere che duro fuori. Gli tornò l'amarezza e interruppe Mario con accento burbero:
«Perché siete venuto, allora?»
Quell'«allora» significava: Se non siete venuto per abbracciarmi. Mario guardò il nonno, e il suo pallore marmoreo.
«Signore...»
Il vecchio riprese, con voce severa:
«Siete venuto a chiedermi perdono? Avete riconosciuto i vostri torti?»
Credeva di metter Mario sulla buona via, di far piegare il «ragazzo». Mario fremette: quello che gli veniva chiesto, era la sconfessione di suo padre.
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