Mario lo guardò, smarrito: il nobile volto di Gillenormand esprimeva ora soltanto una rude e ineffabile bonomia. L'avo aveva ceduto il posto al nonno.
«Suvvia, vediamo, parlami, raccontami i tuoi amorazzi, confessati, dimmi tutto! Perdiana, come sono sciocchi i giovanotti!»
«Padre mio!» riprese Mario.
L'intera faccia del vegliardo s'illuminò d'un'indicibile felicità.
«Sì, così! Chiamami tuo padre, e vedrai!»
V'era ora qualche cosa di così buono e dolce e aperto e paterno in quella ruvidezza, che Mario, in un subitaneo passaggio dalla disperazione alla speranza, ne fu come stordito e inebbriato. Seduto vicino al tavolo, la luce delle candele faceva risaltare il cattivo stato del suo vestito, che papà Gillenormand esaminava stupito.
«Ebbene, padre mio,» disse Mario...
«Insomma,» interruppe Gillenormand «sei proprio senza il becco d'un quattrino! Sei conciato come un ladro.»
Frugò nel cassetto, vi prese una borsa, che pose sul tavolo.
«To', ecco cento luigi; comprati un cappello.»
«Padre mio,» proseguì Mario «mio buon padre, se sapeste! Io l'amo. Voi non immaginate; la prima volta che l'ho vista è stato al Lussemburgo, dove veniva anche lei; in principio non le badavo, poi, non so come sia successo, me ne sono innamorato. Oh, come mi ha reso infelice quell'amore! Finalmente, ora la vedo, ogni giorno, in casa sua; ma suo padre non lo sa. Figuratevi che stanno per partire, noi ci troviamo tutte le sere in giardino e suo padre vuol condurla in Inghilterra, allora ho detto fra me: <Andrò a trovare il nonno e gli racconterò la cosa.
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