Di notte è buio pesto,
Di giorno è chiaro assai,
Per uno scritto apocrifo
È il borghese pien di guai.
Praticate la virtù,
Cappelli a punta, uh, uh!
Era il piccolo Gavroche che partiva per la guerra. Sul viale s'accorse che alla pistola mancava il cane.
Di chi era quella strofa che gli serviva a scandire il passo, e tutte le altre canzoni che, all'occorrenza, cantava volentieri? L'ignoriamo. Forse, chissà? eran sue. Del resto, Gavroche era al corrente di tutto il repertorio popolare in circolazione e ad esso univa il suo gorgheggio. Folletto e fattorino, faceva un miscuglio delle voci della natura e di quelle parigine, e combinava il repertorio degli uccelli con quello degli opifici. Conosceva parecchi garzoni di pittore, tribù contigua alla sua; e, a quanto pare, era stato per tre mesi apprendista tipografo. Un giorno, aveva fatto una commissione per conto del signor Baour-Lormian, uno dei quaranta. Gavroche era un monello letterato.
Del resto Gavroche non sospettava neppure che in quella brutta notte piovosa in cui aveva offerto ai due marmocchi l'ospitalità del suo elefante avesse fatto l'ufficio di provvidenza proprio per i suoi fratelli: per i suoi fratelli, la sera, e per suo padre, il mattino. Questa era stata la sua notte, e dopo aver lasciato la via Ballets, sull'alba, era tornato in fretta all'elefante, ne aveva cavato fuori con arte i due bimbi, aveva diviso con essi la colazione che aveva inventata, e poi se n'era andato, affidandoli a quella buona madre, la strada, che aveva pressapoco allevato lui.
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