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«Per questo,» disse Gavroche «me ne stropiccio altamente.»
Poco dopo, passava davanti al palazzo Lamoignon. Gettò là questo richiamo:
«In cammino per la battaglia!»
Ma fu preso da un accesso di malinconia e guardò la pistola con aria di rimprovero, come tentasse d'intenerirla.
«Io vado,» le disse; «ma tu non vai, proprio.»
Un cane può distrarre da un altro. Passò di là un cane barbone, magrissimo, e Gavroche s'impietosì.
«Mio povero totò» gli disse «hai forse inghiottito una botte, che ti si vedono tutti i cerchi?»
Poi si diresse verso l'Olmo di Saint-Gervais.
III • GIUSTA INDIGNAZIONE D'UN PARRUCCHIEREIl degno parrucchiere che aveva scacciato i due piccini, ai quali Gavroche aveva dischiuso il paterno intestino dell'elefante, era in quel momento in bottega, intento a far la barba ad un vecchio soldato decorato, che aveva servito sotto l'impero. Entrambi discorrevano; naturalmente, il parrucchiere aveva parlato al veterano della sommossa, poi del generale Lamarque, e dal generale Lamarque eran venuti a parlare dell'imperatore. Da ciò una conversazione da barbiere a soldato, che Prudhomme, se fosse stato presente, avrebbe arricchita di arabeschi e intitolata: Dialogo del rasoio e della sciabola.
«Come cavalcava, l'imperatore, signore?» chiedeva il parrucchiere.
«Male. Non sapeva cadere, e perciò non cadeva mai.»
«Aveva dei cavalli? Doveva averne di certo.»
«Il giorno in cui mi diede la croce, notai la sua cavalcatura. Era una cavalla da corsa, tutta bianca; aveva le orecchie molto discoste, la sella profonda, una testa fine marcata da una stella, il collo lunghissimo, ginocchia fortemente articolate, fianchi sporgenti, spalle oblique, il posteriore possente.
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