Aveva un pungolo? Certo, la miseria. Aveva le ali? Certo, l'allegria. Gavroche era un turbine: lo si vedeva senza posa, lo si sentiva sempre; riempiva l'aria, poiché era dappertutto ad un tempo. Era una specie d'ubiquità quasi irritante. Con lui non era possibile la minima sosta; l'enorme barricata se lo sentiva sulla groppa. Egli infastidiva gli oziosi, eccitava i pigri, rianimava gli stanchi e spazientiva i meditabondi; faceva allegria a taluni, animo ad altri, collera ad altri ancora e metteva tutti in moto, pungeva uno studente, mordeva un operaio, si posava, si fermava, ripartiva, volava al disopra del tumulto e dello sforzo, saltava dall'uno all'altro, mormorava, ronzava e disturbava ognuno, mosca dell'immenso Cocchio rivoluzionario.
Il moto perpetuo era nelle sue braccine e il perpetuo vociare nei suoi piccoli polmoni.
«Forza! Ancora pietre! Ancora botti! Ancora un arnese! Dove si può trovarne? Una gerla di calcinacci, per turarmi quel buco. È piccola piccola, la vostra barricata: bisogna che cresca. Metteteci tutto, scaraventateci tutto, buttateci tutto. Rompete la casa. Una barricata è come il caffè di mamma Gibon: c'è dentro di tutto. Guardate, ecco una porta a vetri.»
I lavoratori proruppero in un'esclamazione.
«Una porta a vetri! E che vuoi che ne facciamo d'una porta a vetri, tubercolo?»
«Ercoli sarete voi!» ribattè Gavroche. «Una porta a vetri in una barricata è ottima; non impedisce d'assalirla, ma dà fastidio prenderla. Non avete dunque mai sgraffignato le mele al disopra dei muri sui quali hanno messo i cocci di bottiglia?
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Cocchio Gibon Gavroche
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