Il suo viso, inesauribile repertorio di maschere, faceva smorfie più convulse e bizzarre che i buchi d'una tela sotto l'impeto del vento; disgraziatamente, siccome era solo e al buio, la cosa non era né vista né visibile. Si dà talvolta il caso di simili ricchezze perdute.
Ad un tratto, si fermò di colpo:
«Interrompiamo la romanza,» disse.
Il suo sguardo felino aveva distinto in quel punto, nel vano d'un portone ciò che in pittura si chiama un «gruppo», ossia un essere e una cosa: la cosa era un carrettino a mano, l'essere era un facchino che vi dormiva sopra.
Le stanghe del carrettino erano appoggiate contro il suolo e la testa del facchino poggiava sul piano di esso; il corpo dell'uomo era raggomitolato su quel piano inclinato ed i piedi toccavano terra.
Gavroche, colla sua esperienza delle cose di questo mondo, riconobbe un ubriaco; probabilmente, qualche facchino delle vicinanze, che aveva troppo bevuto e dormiva troppo.
«Ecco,» pensò Gavroche «a che servono le notti d'estate. Il facchino dorme sul suo carretto: si prende il carretto per la repubblica e si lascia l'uomo alla monarchia.»
La sua mente era rischiarata dal seguente lampo di luce:
«Questo carretto andrebbe a meraviglia sulla nostra barricata.»
Il facchino russava.
Gavroche tirò dolcemente il carretto didietro e l'uomo per davanti, ossia per i piedi; e in capo ad un minuto, l'imperturbabile facchino riposava supino sul lastrico. Il carretto era libero.
Gavroche, avvezzo a fronteggiare da ogni parte l'imprevisto, aveva sempre tutto l'occorrente.
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Gavroche
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